Poche nazioni al mondo sanno come dare gloria eterna ai propri eroi come gli Stati Uniti d’America
Soprattutto quando si parla di sport
Ancor di più se si tratta di sport che hanno inventato loro
Come la pallacanestro
A Springfield, nel Massachussets, c’è la Hall of Fame di basket
Lì, dove scorre il fiume Connecticut, un professore di educazione fisica venuto dal Canada, inventò in 14 giorni un gioco per far star buone alcune classi parecchio irrequiete
Troppo irrequiete
Ci avevano provato in tanti ma nessuno era riuscito a cavare quel famoso ragno dal buco
Il suo nome era James Naismith
Quel gioco, che tra qualche anno spegnerà le 130 candeline, era la pallacanestro
La Naismith Memorial Basketball Hall of Fame è un luogo sacro, di culto
Farne parte è il massimo riconoscimento internazionale per chi, in qualunque modo, ha avuto a che fare con la palla a spicchi
Cestisti certo
Ma non solo
Allenatori, arbitri, personaggi, persino intere squadre che hanno contribuito ad affermare questo sport a livello globale
E non per forza americani
L’Italia, ad esempio, è rappresentata in panchina da Cesare Rubini e Sandro Gamba, in campo da Dino Meneghin
Poi c’è anche Danny Biasone, italiano di nascita e naturalizzato americano
Il suo merito? Aver introdotto la regola rivoluzionaria dei 24 secondi
Un’altra storia, bellissima, ma un’altra storia
Quella di quest’anno però non è un’edizione come tutte le altre
Di solito, in questo periodo di inizio primavera, vengono resi noti i nomi che verranno introdotti alla gloria cestistica perpetua
Verso la fine dell’estate, invece, si tiene l’evento vero e proprio
Una festa, grande, di quelle che fornicono aneddoti da ricordare per anni
Quest’anno sembra tutto ribaltato
Nel 2020, la pandemia da coronavirus che sta devastando gli Stati Uniti, ha fatto sì che l’annuncio di questi nomi diventasse la notizia sportiva del weekend
Senza partite giocate e senza la consueta elettricità fornita dagli immentini playoff NBA, un piatto di contorno, buonissimo per carità, è diventato la portata principale dei banchetti giornalistici di tutto il mondo
Ma c’è un altro motivo, ancora più importante
Tra gli hall of famer del 2020 c’è un nome che sarà difficile dimenticare
Quello di Kobe Bryant
L’America, nonostante siano passati quasi tre mesi dal tragico incidente che ha portato via il campione dei Lakers, è ancora vestita a lutto
Nessuno, ripeto, sa rendere gloria ai propri eroi come fanno gli Usa
E Kobe Bryant è un eroe sportivo con l’H (quella di Hero) maiuscola
La classe del 2020
Ma non c’è solo il nome di Kobe a rendere quest’edizione così speciale
Accanto a lui ci sono altre figure che hanno scritto pagine fondamentali della pallacanestro
Tim Duncan e Kevin Garnett, ad esempio
Il primo, cresciuto alle Isole Virgini e poi a Wake Forest, North Carolina, ha contribuito a rendere grandi i San Antonio Spurs di Popovich, Robinson, Parker e Ginobili
Uno che centellinava le parole, fuori e dentro il campo, ma che compensava questo silenzio con gesti tecnici di abbacinante bellezza
Il secondo, uomo del South Carolina, passò direttamente dall’high school alla Nba, non una cosa così comune
Diventò grande al freddo di Minneapolis e riportò a Boston un titolo tanto agognato da chi, i Celtics, quella Lega l’aveva in passato già dominata
Insieme a loro l’allenatore Eddie Sutton, uno dei santoni del College Basketball, le sue fenomenali colleghe Barbara Stevens e Kim Mulkey, e l’ex dirigente Patrick Baumann, segretario Fiba e grande uomo di sport
Ma in questo elenco compare anche Rudy Tomjanovich, giocatore e allenatore, simbolo di Houston
Uno con una storia incredibile, molto americana, di assoluta tenacia
Una storia da vero hall of famer
I Rockets e Rudy T
Impossibile scindere la storia dei Rockets da quella di Rudy T
Quello infatti era il nome con cui Rudy Tomjanovich, cognome di origine croata molto complesso da scrivere e pronunciare per gli americani, veniva chiamato durante i suoi anni agli San Diego Rockets, prima, e agli Houston Rockets, poi
Nel 1967, infatti, la franchigia fondata da Robert Breitbard gioca in California
San Diego è una città in espansione, ma il suo pubblico si dimostra più innamorato di altri sport, come il baseball
Quella è terra dei Padres
Così nel 1971 la squadra viene venduta e si trasferisce in Texas
A San Diego non andrà bene neanche con il secondo tentativo, quello dei Clippers (nella baia c’erano tanti velisti se vi state chiedendo il perché di questo soprannome)
La squadra arriva da Buffalo (stato di New York), dove si chiamavano Braves, nel 1978, ma traslocano presto, appena sei anni dopo, un po’ più a nord, a Los Angeles
A Houston il nome “Rockets” non viene cambiato
Del resto sembra calzare a pennello
A San Diego era stato scelto perché in città venivano costruiti i razzi Atlas, quelli utilizzati della Nasa
In Texas, poi, la Nasa è di casa
La squadra inizia la sua prima stagione, quella del 1971, schierando due giocatori di primissimo livello: Elvin Hayes, hall of famer, e Rudy T
Ma un problema a Houston c’è: la squadra si è trasferita in una città che non ha un palazzetto adeguato per le gare casalinghe della franchigia
La palla a due viene così alzata in altri luoghi del Texas, da San Antonio ad Albuquerque e Waco
Per limitare i costi, mentre sono in trasferta nella costa occidentale, i Rockets giocano persino due partite a San Diego
In quella stagione, del resto, persino i Golden State Warriors che stanno a Oakland giocano sei gare casalinghe a San Diego
I proprietari, per uno scampolo brevissimo, avrebbero un’idea “statale” della loro creatura cestistica
Pensano cioè di dividerla tra due città
Dura poco ma san Diego, in quel frangente temporale eccezionale, si ritrova così ad ospitare, senza esserne proprietaria, due franchigie Nba
Un’altra storia, bellissima, ma un’altra storia (cit
)
Rudy T
, l’uomo franchigia
Alla fine degli anni ’70 Rudy T
è uno dei prospetti più interessanti del basket collegiale
Gioca in Michigan, è nato in un sobborgo di Detroit, lontanissimo dalla California e dal Texas
Segna 30 punti e prende 15 rimbalzi di media nei suoi tre anni con la canotta 45 dei Wolverines e viene scelto con la seconda chiamata assoluta nel draft del 1970
Proprio da San Diego
Ma quello non è un draft banale
Prima scelta, proprio tra le mani dei Detroit Pistons che rinnegano Rudy T
, è Bob Lanier
Un fenomeno assoluto, hall of famer classe 1992
Uno talmente forte che sia la franchigia della città dell’automobile che quella dei Milwaukee Bucks, la sua seconda squadra, ne ritirano la maglia a fine carriera
Ma dietro a Rudy T
, scelto come terzo, c’è un giocatore ancora più forte, uno di quelli che cambierà per sempre la storia del gioco
Si chiama Pete Maravich, meglio noto come Pistol Pete
Come nel caso di Tomjanovich, anche nelle sue vene, scorre sangue slavo
Serbo, stavolta
Quello, insomma, è un podio di fenomeni
Si pesca bene, in ogni caso
Rudy T
a San Diego fa fatica
Il suo anno da rookie è complicato, i numeri non sono esaltanti
Ma a Houston, dopo il trasferimento della squadra, cambia tutto
Con quella città del sud, “space city” come tanti la chiamano, il feeling scoppia fin da subito
Si trova così bene che ci passerà (quasi tutta) la sua intera vita sportiva
Ben 33 anni
Come giocatore, dal 1970 al 1981, e in panchina, dal 1983 al 1992 come assistente e dal 1993 al 2003 come capo allenatore dei Rockets
Si trova così tanto bene che la sua autobiografia, uscita nel 1997, si intitolerà A Rocket at Heart: My Life and My Team
Un amore ricambiato visto che, intanto, come ha già fatto l’università di Michigan, Houston ha deciso di ritirare per sempre la sua maglia numero 45
Tra il 1998 e il 2000, Tomjanovich è anche l’allenatore della nazionale americana che vince l’oro alle Olimpiadi di Sydney superando con facilità tutte le 8 partite della competizione
Un paragone con il dream team del 1992 che forse fu azzardato ma l’autorità di quella squadra non venne praticamente mai messa in discussione
Ah, in quella squadra c’è anche Kevin Garnett
Nella bacheca dei trofei di Rudy T
ci sono anche 5 chiamate come All Star NBA da giocatore e due titoli vinti da allenatore nel 1994 e nel 1995
Gli unici vinti dagli Houston Rockets nella loro storia
Sono gli anni di assenza di Michael Jordan, certo, quelli tra il primo ritiro e il ritorno con i Bulls, ma quella era una squadra fortissima con giocatori come Hakeem Olajuwon, che venne scelto prima di MJ nel draft del 1984, Drexler, Thorpe, Horry, Elie e Sam Cassell
Rudy T
chiuderà la sua carriera a metà della stagione 2004-2005, dopo una breve parentesi come coach dei Lakers
Ancora una volta, la California non è Houston, e non gli porta bene
Quella parentesi così piccola è condizionata da un male oscuro, un cancro alla vescica, che l’uomo dal Michigan sconfigge del tutto
Un’altra vittoria di uno che, da sempre, nella vita è stato abituato a lottare
Sempre senza cattiveria, con maniacale attenzione, ma ricordandosi che quello della pallacanestro, in fondo, è sempre e solo un gioco
Una filosofia di vita, quella del peacekeeper, raccontata da John Feinstein, penna sopraffina, all’interno del libro The Punch: One Night, Two Lives e The Fight That Changed Basketball Forever
L’evento che più di tutti cambiò la vita e la carriera di Rudy T
Il pugno, “The Puch”, del 1977
Il 9 dicembre del 1977 si gioca Lakers-Rockets
California, again
In campo il clima è teso e ad un certo punto degenera
Tomjanovich corre verso il centro del campo e prova a calmare Kareem Abdul-Jabbar, Kevin Kunnert e Kermit Washington, protagonisti dell’ennesimo diverbio
Washington, ottenebrato dalla rabbia, fa partire un pugno devastante che colpisce in pieno volto Rudy T
Si narra che il rumore dell’impatto, nonostante un’arena così piena, si sentì a grande distanza, fin nelle ultime file
Jabbar, lo definì come quello “di un melone che viene scaraventato contro l’asfalto”
Jerry West parlò di “colpo di pistola”
Cala il silenzio, Tomjanovich crolla a terra
Il referto medico è devastante
Frattura del setto nasale, frattura di uno zigomo, spostamento della mandibola e commozione cerebrale
Le ossa del cranio rientrano di circa 8 millimetri con versamento di sangue e liquido spinale
Quel pugno avrebbe potuto uccidere
Tre operazioni chirurgiche per il malcapitato giocatore dei Rockets, 53 partite saltate e un trauma molto più profondo di quello subito dal suo corpo
La Nba non sarà più la stessa
Il compianto David Stern, commissioner morto a gennaio di quest’anno, decise una volta a capo della Lega di inasprire le regole: “Preferisco squalificare un’intera panchina per essere entrata in campo piuttosto che vedere incidenti del genere”
Il volto di Rudy T
rimase segnato per sempre
Devono passare molti anni affinché arrivi il perdono per Washington, giocatore dall’adolescenza difficile, passato di famiglia in famiglia a causa dei problemi dei genitori
Ma Tomjanovich, che è cresciuto in una zona di Detroit non proprio residenziale, alla fine passerà oltre
“Ho una cosa da dire a quelli che non credono
Non sottovalutare mai il cuore di un campione”, scriverà nel suo libro parlando di basket e di vita
Oggi, dopo una vita passata con i Rockets e per i Rockets, Rudy Tomjanovich vive ad Austin, sempre in Texas, non lontano da Houston
Rudy T
, invece, dal 4 aprile del 2020 è entrato a far parte dell’olimpo del gioco
Quell’olimpo che, nel nome di Naismith, continua a raccontare come nessun altro le storie dei suoi figli prediletti